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ALZHEIMER: è il nuovo diabete di tipo 3?

Utilizzando le corrette strategie nutrizionali è possibile modificare in positivo il nostro bilancio ormonale

A molti di noi il termine “insulina” è noto. Con ogni probabilità lo avrete sentito pronunciare dal vostro medico, ma è anche possibile che lo abbiate letto in qualche rivista o sentito in qualche trasmissione televisiva o radiofonica. Ma quando se ne iniziò a parlare?

È dal lontano 1869 che, grazie alle scoperte del Dottor Paulescu in Romania, questo termine è diventato di uso comune. Tutti sanno che è un ormone, di natura proteica, che viene sintetizzato dal pancreas ed ha la funzione

di “comunicare” alle cellule del nostro corpo di far entrare glucosio, in modo che questo possa essere utilizzato come “carburante” per la produzione di energia.

La carenza di insulina in relazione con lo sviluppo dell’Alzheimer

Ci sono condizioni però in cui si verifica una diminuzione della sensibilità all’azione dell’insulina che determina perciò uno stato di insulino-resistenza. Quando ciò accade, le cellule del nostro organismo non “rispondono” all’insulina e la loro capacità di far entrare il glucosio si riduce. Quando i recettori delle nostre cellule non recepiscono più il segnale,
la glicemia del sangue aumenta e, con il tempo, si può passare ad una condizione di diabete.

La correlazione tra insulino-resistenza e diabete è conosciuta, in ambito medico, ormai da decenni. Negli ultimi tempi però le conoscenze su questo specifico tema sono considerevolmente aumentate. Grazie a ricerche scientifiche più approfondite, da qualche anno si sostiene che l’insulino-resistenza e la conseguente insulino carenza, oltre ad essere considerate alla base dell’origine del diabete, siano uno dei fattori di rischio più rilevanti per lo sviluppo dell’Alzheimer.

Le prove accumulate nel tempo sono così salde che l’Alzheimer è stata denominata da alcuni ricercatori “Diabete di tipo 3” avendo in comune gli stessi meccanismi molecolari e biochimici del Diabete 1 e 2. Ma andiamo
più nel dettaglio.

Che cos’è l’Alzheimer?

La demenza di Alzheimer (in inglese, Alzheimer Disease, AD) oggi colpisce circa il 5% della popolazione con più di 60 anni e in Italia si stimano circa 500mila ammalati. È considerata la forma più comune di demenza senile, uno stato provocato da un’alterazione delle funzioni cerebrali che implica una serie di difficoltà nel condurre le normali attività quotidiane.
La malattia colpisce la memoria e le funzioni cognitive ma si ripercuote anche sulla capacità di parlare e di pensare. Tutto questo sfocia in una grave menomazione della vita sociale ed affettiva.

Durante la sua progressione, lenta e continua nel tempo, si verificano varie anomalie, come
la perdita di cellule cerebrali, la formazione di abbondanti grovigli neurofibrillari, il deposito
di alcune proteine, stress ossidativo e danni al DNA.

Le ultime ricerche scientifiche ci portano, dunque, a prestare maggiore attenzione alla relazione tra Diabete 2, e recentemente anche al tipo 1, con lo sviluppo delle patologie neuro-degenerative. Questa ultima ipotesi è stata avvalorata dall’incremento dei tassi di prevalenza di obesità, diabete ed Alzheimer negli ultimi decenni e dalla condivisione di stesse condizioni come demenza, decadimento cognitivo, disturbi di obesità e dislipidemie, insulino-resistenza progressiva del cervello e insulino carenza. (Alzheimer’s disease is type 3 Diabetes- reviewed j diabetes sci technol 2008 Nov; 2(6): 1101 – 1113. Published online 2008 nov).

Quello che colpisce maggiormente gli esperti è che l’insulino-resistenza non solo si verifica nella “periferia”, come si pensava in passato, ma avviene anche a livello cerebrale. La segnalazione insulinica cerebrale è fondamentale per apprendimento e memoria e questo motiva in modo chiaro i deficit cognitivi spesso presenti nell’AD (Insulin resistance and Alzheimer’s disease pathogenesis: potential mechanisms and implications for treatment.
Curr Alzheimer Res. 2007;4(2):147–152).

Ma questo non deve stupirci più di tanto perché l’insulina non agisce solo sulle cellule somatiche ma ha anche dei recettori a livello cerebrale ed il glucosio è una fonte primaria energetica per il nostro cervello.

La “pistola fumante” che ha sollevato dubbi e perplessità sull’ipotesi che l’insulina cerebrale possa essere il fattore scatenante dello sviluppo dell’Alzheimer è la pubblicazione
dell’Hisayama study nel 2011. I ricercatori, che nel 1985 iniziarono uno studio nella cittadina giapponese, analizzarono per 15 anni 1017 soggetti anziani senza demenza senile e videro che l’incidenza di sviluppo di Alzheimer e demenza vascolare negli anni era significativamente più alta nei soggetti con diabete rispetto a quelli con normale tolleranza glucidica (The cohort study of dementia: the Hisayama study 2011 Nov; 51(11): 906-9).

Nello stesso anno un altro studio multidisciplinare condotto a Palermo da Ricercatori del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) mostrò come la somministrazione di insulina in vitro fosse in grado di annullare la tossicità di piccoli peptidi come il beta-amiloide, uno degli elementi principali nello sviluppo di Alzheimer. Questa sorta di protezione avviene grazie al legame dell’insulina con il suo recettore che porta alla sintesi di una molecola chiave, la proteina Akt. Essa funge da “interruttore biologico” essendo abile nell’annullare l’effetto degenerativo del peptide presente nello stato di demenza.

In parole povere, in assenza di insulino-resistenza, la cellula cerebrale è in grado di captare il segnale dell’insulina che, grazie principalmente alla proteina Akt, antagonizza gli effetti degenerativi cerebrali presenti nell’Alzheimer, fungendo così da meccanismo di difesa fisiologica (Insulin-activated Akt rescues Aβ oxidative stress-induced cell death by orchestrating molecular trafficking 2011 Oct;10(5):832-43).

Ora capirete come la presenza dell’insulina a livello cerebrale sia di primaria importanza sullo sviluppo di patologie neurodegenerative.
Infine vi sarà ad oggi più chiara la connessione dei meccanismi che stanno alla base del diabete e dell’AD: l’interruzione, infatti, dei segnali dell’insulina a livello cerebrale ha alla base meccanismi simili che conducono alla resistenza dell’insulina nel diabete.

Alimentazione come farmaco potentissimo

Resto fermamente convinto che l’alimentazione sia il più potente farmaco che abbiamo a disposizione. Pertanto, utilizzando le corrette strategie nutrizionali è possibile modificare in positivo il nostro bilancio ormonale.

La società nella quale viviamo ormai ci ha condizionato e reso dipendenti da abitudini sbagliate, propinandoci alimenti che non esisterebbero neppure in natura. A questo punto, come dice il proverbio, “dare un colpo al cerchio e uno alla botte” potrebbe essere la soluzione ottimale per goderci il cibo della festa in un momento di convivio e, dall’altra parte, essere coscienti che assumere costantemente nella nostra giornata carboidrati ad alto indice glicemico (pane, pasta, patate, pizza, dolci, biscotti o altro) può portarci a problematiche ben più serie rispetto al semplice “aumento di una taglia”. Soprattutto se questa tipologia di cibo non viene abbinata correttamente con proteine che ci permettano di diminuirne il carico glicemico complessivo.

Regolando e bilanciando la nostra dieta correttamente potremmo “governare” i nostri ormoni e mantenere la glicemia stabile così da poter rimanere con la “nostra taglia”, ma soprattutto garantendo al nostro corpo un’efficace strategia di prevenzione.

In conclusione, abbinare e non dissociare penso sia il comandamento più utile per difendersi dall’opulenza alimentare della nostra società.

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